Per un capitalismo inclusivo è il titolo di un lavoro, di recente pubblicazione, curato da Enrico Sassoon. Raccoglie saggi di diversa provenienza disciplinare che riflettono e discutono su quello che viene indicato come il «cambiamento inevitabile». A cosa si fa riferimento? Al fatto che il capitalismo, così come l’abbiamo conosciuto e praticato, ha mostrato la sua incapacità di creare ricchezza sostenibile generando piuttosto crescenti ed insopportabili disuguaglianze.
Occorre cambiare, ricercando e assecondando la transizione verso una forma nuova di capitalismo. Larry Fink auspica che sia «inclusivo e sostenibile». Bisogna riscoprire, in altre parole, il valore e i benefici della sua «alternativa storica» che Marianna Mazzuccato indica nel «capitalismo degli stakeholder». Vale la pena ripercorrere un passaggio del testo, scritto dalla docente di Economia dell’innovazione e valore pubblico all’University College e ospitato nel volume. «Il capitalismo degli azionisti parte dall’idea che solo le imprese creino valore e che lo facciano nel migliore dei modi quando massimizzano i prezzi delle azioni e il valore per gli azionisti». Mentre «il capitalismo degli stakeholder parte dall’idea che, in realtà, la ricchezza sia creata collettivamente da vari tipi di organizzazione, non solo all’interno del business».
Non è una differenza di poco conto, il secondo capitalismo in effetti disegna un’economia profondamente diversa nella quale anche le imprese e la loro funzione cambiano. La prospettiva evocata, peraltro, trasforma non solo il contributo atteso da imprenditori e manager, ma anche quello che ci si aspetta dalle funzioni HR.
La sfida
Il paradigma della sostenibilità, infatti, al quale l’evoluzione richiamata si ispira, sollecita queste ultime a impegnarsi attivamente per declinare in modo coerente le pratiche di gestione delle risorse umane. Si tratta di una missione sfidante che, certamente, troverà sulla sua strada resistenze culturali e una strenua difesa di posizioni. Non bisogna però perdere l’opportunità, occorre cogliere i nessi più autentici e profondi della sostenibilità con lo scopo e il contributo che può assicurare la funzione HR per una società e un’economia migliori. È il momento del coraggio, è il tempo nel quale la funzione HR deve assumere la leadership di questa transizione.
Facciamo qualche esempio per comprendere il terreno nel quale si fronteggeranno il vecchio e il nuovo, gli interessi di pochi contro quelli di molti. La ricerca di nuove forme di capitalismo poggia sull’idea che il valore si genera in modo condiviso, la sua distribuzione allora deve essere equa e coinvolgere tutti gli stakeholder. Come può essere declinata nelle pratiche di gestione delle risorse umane?
Ambienti di lavoro e stili di management
Un modo è quello di costruire, coltivare, manutenere con determinazione ambienti di lavoro che offrano condizioni rispettose dell’umano. Luoghi e modalità di lavoro che non tutelano la sicurezza e la salute delle persone dovrebbero essere respinti dal capitalismo degli stakeholder.
Ma anche stili di leadership che “comandano e controllano” togliendo ossigeno alle persone, tarpando le ali all’autonomia crescente richiesta dalle nuove modalità di lavoro “agile e ibrido” che marginalizzano la fiducia non costituiscono buone pratiche per assicurare una distribuzione equa della ricchezza creata insieme.
Non lo sono neanche trattamenti retributivi a favore dei collaboratori ispirati solo dall’obiettivo di ridurre i costi per massimizzare i profitti per gli azionisti. Anche questa è una cattiva distribuzione del valore creato che va a braccetto con quella che rende insostenibile la distanza tra la remunerazione di chi guida l’impresa e quella di chi vi collabora creando valore tutti i giorni. Eccessivi differenziali retributivi sono la spia – per usare un’espressione di Vandana Shiva[1] – del «virus dell’avidità» che ha contagiato il mondo che abitiamo.
Quelle ricordate sono solo alcune evidenze di una gestione delle risorse umane figlia di quel capitalismo che va rimpiazzato con forme nuove rispettose della dignità, sociale e individuale, di donne e uomini.
La partecipazione di tutti
L’alternativa storica al capitalismo che oggi viene messo all’indice (ma non da tutti) passa inoltre per imprese innervate da percorsi partecipativi a tutti i livelli capaci di dare voce ai tanti collaboratori di un’impresa che riscopre, da una parte, l’importanza di avere uno scopo (purpose) diverso da quello di massimizzare il valore per gli azionisti e, dall’altra, il contributo insostituibile che fornitori, comunità e territorio offrono per creare valore insieme. Un valore da condividere. Per esempio prevedendo condizioni e modalità di pagamento delle prestazioni eque e rispettose sia riguardo ai tempi sia riguardo ai contenuti. Non ascoltare queste istanze di equità significa rimanere al palo del vecchio capitalismo che si vuole trasformare. Anche il presidio di questi aspetti, infatti, e a coerenza tra il dire e il fare, rientrano nelle politiche di gestione delle risorse perché la sostenibilità non può essere tagliata e servita a fette. Non basta vantarsi di essere best employer per i dipendenti mostrando attestazioni e premi, occorre esserlo infatti per tutti coloro che collaborano con l’impresa. Nel tempo del capitalismo inclusivo e sostenibile trattare con equità tutti gli stakeholder, piccoli e grandi, diventa principio guida e metrica dell’impresa, non è più mera questione amministrativa affidata ai principi e alle tecniche contabili e alle politiche di gestione dei flussi di cassa. Non può più essere così. Nel tempo del capitalismo degli stakeholder il valore creato insieme lo si distribuisce in modo equo, la ricchezza non può essere per pochi, deve essere collettiva.
Alle funzioni HR spetta dunque una missione entusiasmante, seppur difficile e per certi versi utopica: sintonizzare l’impresa e le sue componenti attorno all’idea che tutti, nell’impresa e fuori di essa, sono legati da un destino di comunità, un esito che sarà compiuto «quando i nostri io diventano noi»[2], quando sarà implementata una mentalità diversa che, anche nei luoghi organizzativi, passi dalla postura dell’io a quella del noi.
[1] Vandana Shiva, Dall’avidità alla cura, EMI, 2022
[2] È il titolo di un capitolo del libro di Olga Chiaia, Il bello di riscoprirsi umani, Feltrinelli, 2017