Manager e team HR hanno numerose aree sulle quali impegnarsi per costruire condizioni capaci di generare «lavoro dignitoso e sostenibile». Tra queste riveste un rilievo particolare la progettazione organizzativa (work & job design), una dimensione che forse è stata trascurata nel tempo e privata di quell’attento presidio che invece merita. Soprattutto quando le innovazioni tecnologiche possono avere conseguenze ancora più importanti che nel passato sui contenuti, sulla qualità e sul significato dei lavori.
Al riguardo vale sempre la pena tenere vivo il monito di Émile Durkheim che sosteneva come lavori poco significativi, oltre che influenzare negativamente l’autostima degli individui, generano anche disaffezione verso la partecipazione attiva alla vita della società. Comprendere l’importanza del proprio lavoro nel sistema più ampio dell’organizzazione dell’impresa, infatti, consente al lavoratore di capire anche il valore sociale di quello che fa e del proprio ruolo.
Per questo tutti i lavori, anche quelli non complessi e che richiedono minore intensità di conoscenze, devono essere progettati in modo che le persone ne comprendano il senso e il valore per sé stessi, per l’impresa e la società. Qualcuno potrebbe obiettare che ormai questa sensibilità è parte integrante della cultura manageriale e che si presta già attenzione a questo aspetto per evitare pratiche di organizzazione del lavoro fondate “scientificamente” su una parcellizzazione spinta ben conosciuti nel passato. Marx, come noto, individuava in questa pratica la ragione dell’alienazione e dello stato di sfruttamento nel quale la classe operaia veniva tenuta.
Eppure la tentazione di ricercare la massima efficienza attraverso una crescente specializzazione e/o parcellizzazione del lavoro bussa sempre alla porta di imprese e organizzazioni. Alcuni lavori generati dal cosiddetto capitalismo delle piattaforme possono testimoniarlo. Tra le implicazioni dannose c’è proprio la separazione prodotta ad arte tra il lavoratore e i fini dell’attività che è chiamato a fare, circostanza che impoverisce di significato e di valore il lavoro svolto.
Con quali effetti? Poca considerazione e poco riconoscimento verso quello che si fa contribuiranno a sciogliere i legami sociali nella comunità lavorativa incentivando atteggiamenti individualistici. Tutto questo ridurrà anche l’interesse del lavoratore a partecipare alla vita dell’impresa e a sentirsi impegnato verso il raggiungimento di obiettivi comuni.
Non può esserci dunque lavoro dignitoso e sostenibile senza partecipazione, perché quest’ultima è un suo fattore costitutivo. Ora, gli ambiti organizzativi nei quali poterla declinare sono davvero numerosi. Potremmo dire che non c’è pratica di gestione delle risorse umane che non possa essere riletta con le lenti della partecipazione.
Un buon esempio sono le esperienze di job crafting che cercano il coinvolgimento del lavoratore nel disegnare e modellare sulle proprie caratteristiche il ruolo e le attività da svolgere. C’è tanto spazio per accrescere la partecipazione, però, non solo a livello individuale ma anche a livello collettivo.
Cosa possono fare, allora, manager e team HR per accrescere la partecipazione dei collaboratori nel lavoro affidato loro, nei sistemi di performance management, nel disegno delle politiche e dei percorsi di carriera, in quelle di reward e nei sistemi di relazioni industriali?
C’è molto lavoro da fare innovando e sperimentando, in tutta la filiera del lavoro che va ben oltre quello «dipendente», per generare impatto sociale positivo nell’ecosistema della forza lavoro.