Il «paradigma della sostenibilità», o più precisamente la costruzione di una strategia efficace per implementare la transizione verso l’impresa sostenibile, continua a farsi largo occupando l’agenda di CEO e DG e diventando anche la loro preoccupazione principale. C’è una buona notizia e la prendiamo da un interessante lavoro di Bain & Company, Whatever ESG takes (2022), che propone la sintesi di una serie di conversazioni con alcuni CEO sulle sfide della sostenibilità.
Qual è la buona notizia? Si tratta della consapevolezza che la transizione verso la sostenibilità passa per un cambiamento della cultura aziendale, considerata “rivoluzionaria”. Il panel dei Top Executive che hanno partecipato all’iniziativa sanno che devono promuovere una cultura molto diversa dal passato la cui trasformazione può trovare, e in effetti la sta trovando, resistenza soprattutto nel management e nel middle management. Colpisce una domanda riportata nel report come una di quelle che sembrerebbe chiedano molti manager: “se creo valore, perché poi dovrei condividerlo?” È evidente allora l’urgente bisogno di formare i manager e anche i Consigli di Amministrazione a volgere uno sguardo diverso alla sostenibilità e alle sue sfide. Occorre innanzi tutto un cambio di mentalità che possa supportare la trasformazione, altrimenti anche le metriche ESG finiranno per essere percepite come procedure burocratiche che fanno solo perdere tempo.
In una precedente riflessione scrivevo infatti che abbracciare la sostenibilità vuol dire ripensare e rigenerare il tradizionale impianto strategico ed operativo dell’organizzazione e per farlo serve una mentalità nuova. Serve comprendere le ragioni più profonde di questo cambiamento che poggia sulla identificazione di un nuovo purpose per l’impresa. Non è facile far comprendere, interiorizzare perché possa essere accolta l’idea che le imprese sostenibili sono quelle che hanno capito che il nuovo modo di concepire il business è concepirlo come contributo per cambiare in meglio il mondo, per creare benessere, per vivere meglio rispettando il Pianeta. Trovo davvero efficace quanto ha scritto a tal proposito quasi dieci anni fa Joey Reiman nel suo libro The Story of Purpose (John Wiley & Sons, New Jersey, 2013): «purpose is the force that has the ability to tip the scales and shift from a business model that is self-serving to one that servers others».
In effetti perché dovrebbe sorprendere la difficoltà che può incontrare questo cambio di mentalità. Un CEO tra quelli che hanno conversato con i ricercatori di Bain & Company ha paragonato il cambiamento culturale nel mondo ESG, si legge nel rapporto, a “una sorta di rivoluzione industriale”. Per questo afferma che «la cosa più difficile da cambiare è la mentalità. Il processo di gestione del cambiamento richiede tempo, e il tempo è sempre poco per un CEO, che di solito ha un mandato di tre anni. Incidere sulla cultura manageriale è molto impegnativo». Non sorprende dunque il disorientamento di chi si chiede perché bisognerebbe condividere il valore creato. È difficile, infatti, se si è cresciuti facendo carriera nella cultura che spinge a ricercare il massimo profitto per gli azionisti, accettare l’idea che questo valore vada condiviso con altri. Formare alla sostenibilità significa perciò riuscire a rimuovere la convinzione che quel valore sia stato creato da pochi protagonisti che governano l’impresa, dalle intuizioni strategiche di pochi anziché dal contributo di tanti altri soggetti, perché secondo il paradigma della sostenibilità il valore si crea insieme. La creazione di valore è una co-costruzione alla quale partecipano tutti i protagonisti di un ecosistema che va ben oltre i confini dell’impresa.
Nel rapporto di Bain & Company c’è un altro passaggio che mi ha colpito anche se poi mi sarei aspettato qualche affondo che invece non ho trovato. Riguarda il lavoro, il disegno dei sistemi organizzativi, la gestione delle persone che sono uno dei pilastri su cui si regge l’impresa sostenibile. Ma procedo con ordine. Nel lavoro i ricercatori-consulenti che l’hanno redatto scrivono: «E poiché la cultura riguarda fondamentalmente le persone, questo sottolinea l’importanza di avere una “lente umana” per il successo dei programmi ESG». Non si può non essere d’accordo. Abbracciare la sostenibilità significa infatti cambiare sguardo. Occorre uno sguardo diverso e relazionale per guardare l’economia, l’impresa, la sua funzione e la performance. Ci si aspetterebbe allora che da parte dei CEO vi sia altrettanta consapevolezza anche nel considerare la progettazione e la cura dei sistemi organizzativi, il disegno del lavoro e la gestione concreta dei collaboratori come un’area di grande attenzione e investimento. Una preoccupazione invece che non si coglie o è limitata alla questione della parità di genere e di opportunità che ancora arrancano nei luoghi organizzativi.
Credo che invece bisogna mettere al centro anche questa preoccupazione, perché sono molto numerose – come si sa – le evidenze che testimoniano crescenti disagi negli ambienti di lavoro dovuti a un degradamento della cura proprio verso le persone e il loro benessere. Un decadimento che si accompagna a condizioni stressanti di lavoro, a situazioni nelle quali le organizzazioni non facilitano la voglia di collaborare e impegnarsi in un progetto più ampio di quello descritto dal proprio job. Abbracciare la sostenibilità infatti significa innanzi tutto costruire organizzazioni e lavoro di senso. Per ritornare alle metriche ESG è bene non trascurare questo aspetto. Indossare la lente umana allora mi pare davvero un buon consiglio per affrontare la transizione. Le funzioni e i team HR dovrebbero aiutare i manager a farlo. Con convinzione