Quello del talent management è indubbiamente tema scottante per le organizzazioni. Anche scivoloso. Si parla tanto di sviluppo dei talenti, della capacità di attrarre, motivare e trattenere i migliori. Quelli che consentiranno di raggiungere obiettivi ambiziosi, che risultano più allineati con la cultura organizzativa e che dimostrano il potenziale per crescere in ruoli più importanti.
Secondo una visione di questo genere i talenti però sono pochi, difficili da trovare e da ingaggiare. Per lo più vengono individuati incrociando due dimensioni: il potenziale e la performance. Questa concezione del talent management si fonda su una filosofia secondo cui i migliori vengono identificati e selezionati tra un piccolo gruppo di individui che potrà generare un grande valore per l’organizzazione. Ma siamo sicuri che queste lenti ci facciano mettere bene a fuoco il talent management? Possiamo ridurne il significato a pratica per assicurare all’impresa i suoi futuri leader per garantirne continuità? Potrà resistere ancora per molto questo modello?
I primi segnali di cedimento
Il modello che ispira la gestione dei talenti ancora nella maggior parte delle aziende è caratterizzato da approcci gerarchici e a una via, rigorosamente definiti da sistemi di controllo. Modalità attraverso le quali le persone vengono assunte per svolgere mansioni predefinite e cristallizzate in una job description che propone un preciso elenco di competenze e conoscenze che occorre possedere per ricoprire al meglio (per “performare”) il proprio ruolo. Questo modello però non sembra soddisfare i reali bisogni delle imprese sfidate da cambiamenti importanti, mostra infatti segnali di cedimento da più prospettive. Una è quella evidenziata da una recente ricerca di Korn Ferry: ben tre datori di lavoro su quattro hanno difficoltà a reperire i talenti di cui necessitano, mentre entro il 2030 più di 85 milioni di posti di lavoro potrebbero restare inoccupati perché non si troveranno abbastanza persone qualificate. Cosa ci dicono questi dati? Pensare di puntare solo su chi possiede determinate competenze, su chi dimostra di avere maggior potenziale è ormai un’idea poco sostenibile, se non impossibile da realizzare. Questo approccio elitario fondato su una domanda sbagliata (“chi sono i talenti”?) non ha futuro anche per altre ragioni: perché resta difficile conciliarlo con i principi della sostenibilità e, in particolare, con l’idea di “lavoro dignitoso e sostenibile”. Perché appare miope e riduce lo spazio visivo dell’impresa. È necessario allora un cambio di approccio al talent management, nell’ottica di una maggiore cura e attenzione delle persone e dei talenti che ciascuna di esse ha e che le organizzazioni potrebbero valorizzare.
Valorizzare e coltivare i talenti
Se si abbraccia l’idea che il talent management ha bisogno di un approccio più sostenibile e inclusivo serve cambiare postura, ossia modificare lo sguardo attraverso cui vediamo l’impresa, il suo ruolo nella società e di conseguenza anche il suo atteggiamento verso la gestione delle proprie risorse (umane). L’impresa così potrà vedere e scoprire la ricchezza di talenti che possiede, nascosta da una miopia che può essere corretta.
Questa filosofia approccia il people management in maniera diversa, crede con convinzione che ogni persona ha talenti da spendere e mettere a servizio dell’organizzazione (e della società). Tutte le persone sono “talenti” da questa prospettiva, occorre dunque che l’organizzazione (i suoi manager) si alleni a riconoscerli per aprire loro la strada, per consentire la loro fioritura. Per questo si impegnerà per assicurare che tutti i collaboratori abbiano l’opportunità di sviluppare la conoscenza e le capacità di cui hanno bisogno per tirar fuori il meglio. La formazione, per fare un esempio, non potrà essere solo quella (necessaria) che chiede di aggiornare competenze, ma anche una risorsa che consentirà di valorizzare le vocazioni (talenti) di ciascuno. In questo modo, il processo di talent management amplia i suoi orizzonti perché affida all’organizzazione e ai suoi manager la responsabilità di coltivare i talenti, piuttosto che selezionarli, ricercando le condizioni perché siano valorizzate le caratteristiche di ciascuno. Una via questa che la ricerca, già dal secolo scorso, ha mostrato capace di abilitare autonomia e soddisfazione lavorativa.